San Giovanni Bosco

S. Giovanni Bosco, patrono dell’oratorio di Zelo B. P.

  Nome   Giovanni Bosco
  Nascita   Castelnuovo d’Asti, 16 agosto 1815
  Morte   Torino, 31 gennaio 1888
  Beatificazione   2 giugno 1929 da papa Pio XI
  Canonizzazione   1 aprile 1934 da papa Pio XI
  Ricorrenza   31 gennaio

 

Storia del Santo

 

La storia di don Bosco comincia sulle colline del Monferrato. I Becchi era una piccola frazione di Castelnuovo d’Asti (ora Castelnuovo don Bosco), e lì Giovanni Bosco vide la luce in una povera famiglia di contadini il 16 agosto 1815.

 

CHI ERA SAN GIOVANNI BOSCO?

Breve profilo

La storia di don Bosco comincia sulle colline del Monferrato. I Becchi era una piccola frazione di Castelnuovo d’Asti (ora Castelnuovo don Bosco), e lì Giovanni Bosco vide la luce in una povera famiglia di contadini il 16 agosto 1815. Suo padre, Francesco, morì di polmonite quando Giovanni aveva appena due anni. La mamma, Margherita, lo tirò su con tenerezza ed energia. Gli insegnò a lavorare la terra e a vedere Dio dietro la bellezza del cielo, l’abbondanza del raccolto, il temporale che schiantava le viti. E gli insegnò a pregare. Per Giovanni, pregare voleva dire parlare con Dio in ginocchio sul pavimento della cucina ma anche pensare a lui seduto sull’erba del prato, fissando lo sguardo nel cielo. Da sua madre, Giovanni imparò a vedere Dio anche nella faccia degli altri, dei più poveri: nella faccia dei miseri che d’inverno venivano a bussare alla porta della loro casetta, e ai quali Margherita rattoppava le scarpacce e dava un brodo caldo. A 9 anni, Giovanni ha il primo, grande sogno che marchierà tutta la sua vita. Vede una turba di ragazzi che giocano e bestemmiano. Un uomo maestoso gli dice:

“Con la mansuetudine e la carità dovrai conquistare questi tuoi amici”. E una Donna altrettanto maestosa aggiunge: “Renditi umile, forte e robusto, e a suo tempo tutto comprenderai”. Gli anni che seguirono furono orientati da quel sogno. Figlio e madre videro in esso l’indicazione di una strada per la vita. A far del bene ai ragazzi sbandati, Giovanni ci prova subito. Quando le trombe dei saltimbanchi annunciano una festa patronale sulle colline intorno, Giovanni ci va, e si mette in prima fila davanti ai ciarlatani che danno spettacolo. Studia i trucchi dei prestigiatori, i segreti degli equilibristi. Una sera di domenica (dopo aver provato e riprovato tra cento capitomboli) Giovanni dà il suo primo spettacolo ai ragazzi della borgata. Fa miracoli di equilibrio con barattoli e casseruole sulla punta del naso. Poi balza sulla corda tesa tra due alberi, e vi cammina tra gli applausi dei suoi piccoli spettatori. Prima del “brillante finale”, ripete la predica sentita alla Messa del mattino (che pochi di quei ragazzi hanno sentito, perché la chiesa è lontana, e perché “dare ascolto ai preti” in quei decenni è passato un po’ di moda). E poi invita tutti a pregare. I giochi e la parola di Dio: un binario che scorrerà per tutta la vita di Giovanni Bosco. Giovanni è sicuro che, per far del bene serio a tanti ragazzi sbandati, deve studiare e diventare prete. Ma il fratello Antonio, che ha già 18 anni ed è un contadino rozzo, non ne vuol sapere. Gli getta via i libri, lo picchia. Una gelida mattina del febbraio 1827, Giovanni parte da casa e va a cercarsi un posto da “ragazzo di stalla”. Ha solo 12 anni, ma per le violente litigate con Antonio, in casa la vita è ormai impossibile. Per tre anni lavora come piccolo vaccaro nella cascina Moglia, vicino a Moncucco.

cuore

Conduce le bestie al pascolo, munge le mucche, porta il fieno fresco nelle mangiatoie, guida i buoi che arano i campi. Nelle lunghe notti d’inverno, e seduto all’ombra degli alberi d’estate (mentre le mucche brucano intorno) torna ad aprire i suoi libri, a “studiare”. E prega Dio che “gli apra una strada”. Tre anni dopo, Antonio si sposa. Giovanni può tornare a casa e frequentare prima le scuole di Castelnuovo, poi quelle di Chieri. Per pagarsi la pensione nel tempo libero fa il sarto, il fabbro, il barista, dà ripetizioni. E’ intelligente e brillante, e attorno a lui si coagulano i migliori ragazzi della scuola. Con loro fonda il suo primo gruppo (quanti ne fonderà nella vita!), la “Società dell’allegria”. A vent’anni, nel 1835, Giovanni Bosco prende la decisione più importante della sua vita: entra in Seminario. Sei anni di studi intensi, che lo portano ad essere prete. 5 giugno 1841. L’Arcivescovo di Torino consacra prete Giovanni Bosco. Ora “don Bosco” potrà finalmente dedicarsi ai ragazzi sbandati che ha visto in sogno. Va a cercarli per le strade di Torino. “Fin dalle prime domeniche – testimoniò un ragazzo che incontrò in quei primi mesi, Michelino Rua – andò per la città, per farsi un’idea delle condizioni morali dei giovani”. Ne rimase sconvolto. I sobborghi erano zone di fermento e di rivolta, cinture di desolazione.

Adolescenti vagabondavano per le strade disoccupati, intristiti, pronti al peggio. Li vedeva giocare ai soldi agli angoli delle strade con la faccia dura e decisa di chi è disposto a tentare qualunque mezzo per farsi largo nella vita. Accanto al mercato generale della città (che in quel momento aveva 117 mila abitanti) scoprì un vero “mercato delle braccia giovani”. “La parte vicina a Porta palazzo – scriverà anni dopo – brulicava di merciai ambulanti, venditori di zolfanelli, lustrascarpe, spazzacamini, mozzi di stalla, spacciatori di foglietti, fa servizi ai negozianti sul mercato, tutti poveri ragazzi che vivacchiavano alla giornata”. Quei ragazzi per le strade di Torino erano un “effetto perverso” di un avvenimento che stava sconvolgendo il mondo, la “rivoluzione industriale”. Nata in Inghilterra, aveva passato rapidamente la Manica e scendeva a sud. Avrebbe portato un benessere mai pensato nei secoli precedenti, ma l’avrebbe fatto pagare con un pauroso costo umano: la questione operaia, gli ammassi di famiglie sotto-povere alle periferie delle città, immigrate dalle campagne in cerca di fortuna.

L’impressione più sconvolgente, don Bosco la provò entrando nelle prigioni. Scrisse: “Vedere un numero grande di giovanetti, dai 12 ai 18 anni, tutti sani, robusti, d’ingegno sveglio, vederli là inoperosi, rosicchiati dagli insetti, stentare pane spirituale e materiale, fu la cosa che mi fece orrore”. Uscendo, aveva preso la sua decisione: “Devo impedire ad ogni costo che ragazzi così giovani finiscano là dentro”. Le parrocchie di Torino erano 16. I parroci sentivano il problema dei giovani, ma li aspettavano nelle sacrestie e nelle chiese per i catechismi comandati. Non si accorgevano che, sotto l’ondata della crescita popolare e dell’immigrazione, quegli schemi di comportamento erano saltati. Occorreva tentare vie diverse, inventare schemi nuovi, provare un apostolato volante tra botteghe, officine, mercati. Molti preti giovani provavano. Don Bosco avvicinò il primo giovane immigrato l’8 dicembre 1841. Tre giorni dopo, attorno a lui erano in nove, tre mesi dopo venticinque, nell’estate ottanta.bosco G.

“Erano selciatori, scalpellini, muratori, stuccatori che venivano da paesi lontani” ricorda nelle sue Memorie. Nasce il suo oratorio. Non è una faccenda di beneficenza, né si esaurisce alla domenica. Cercare un lavoro per chi non ne ha, ottenere condizioni migliori per chi è già occupato, fare scuola dopo il lavoro ai più intelligenti diventa l’occupazione fissa di don Bosco. Alcuni dei suoi ragazzi, però, alla sera non sanno dove andare a dormire. Finiscono negli squallidi dormitori pubblici o nelle soffitte subaffittate degli strozzini. Don Bosco tenta due volte di dare ospitalità: la prima gli portano via le coperte, la seconda gli svuotano anche il piccolo fienile. Ritenta, testardo ottimista. Nel maggio 1847 ospita un ragazzotto immigrato dalla Valsesia, spinto a bussare alla sua porta da una pioggia infinita. Gli prepara un rustico letto accanto al focolare acceso, in due stanze che ha affittato nel quartiere basso e maleodorante di Valdocco, e dove abita con sua madre. “Avevo tre lire quando sono arrivato a Torino – mormora il ragazzo – ma non ho trovato lavoro, e sotto questa pioggia non so dove andare. Dopo il ragazzo della Valsesia, in quel 1847, ne arrivano altri sei. Accanto all’oratorio comincia a funzionare una casa-convitto. In quei primi mesi i soldi diventano un problema drammatico per don Bosco. Lo saranno per tutta la vita. La sua prima benefattrice non è una contessa, ma sua madre. Margherita, povera contadina di 59 anni, ha lasciato la sua casa dei Becchi per venire a far da madre ai ragazzi senza nessuno.Bosco

Di fronte alla necessità di mettere insieme il pranzo con la cena, vende l’anello, gli orecchini, la collana del suo matrimonio, che fino allora aveva custodito gelosamente. I ragazzi ospitati da don Bosco nella casa-convitto diventano 36 nel 1852, 115 nel 1854, 470 nel 1860, 600 nel 1861, fino a toccare il tetto di 800. E tra quei ragazzi, qualcuno gli chiede di “diventare come lui”, di spendere la vita per altri ragazzi in difficoltà. Nascerà così la Congregazione Salesiana. I primi a farne parte sono Michelino Rua, Giovanni Cagliero (che diventerà cardinale), Giovanni Battista Francesia. Nell’archivio della Congregazione Salesiana si conservano alcuni documenti rari: un contratto di apprendistato in carta semplice, datato novembre 1851; un secondo in carta bollata da centesimi 40, con data 8 febbraio 1852; altri con date successive. Sono tra i primi contratti di apprendistato che si conservano in Torino. Tutti sono firmati dal datore di lavoro, dal ragazzo apprendista e da don Bosco. In questi contratti, don Bosco mette il dito su molte piaghe. Alcuni padroni usavano gli apprendisti come servitori e sguatteri. Egli li obbligava ad impiegarli solo nel loro mestiere. I padroni picchiavano, e don Bosco esigeva che le correzioni fossero fatte solo a parole. Si preoccupava della salute, del riposo festivo, delle ferie annuali. Ma nonostante ogni sforzo, ogni limatura nelle clausole dei contratti, la condizione dei piccoli lavoratori, in quel tempo, rimaneva troppo dura. Nell’autunno del 1853 don Bosco rompe gli indugi e inizia nell’Oratorio di Valdocco (così si chiama sia l’oratorio propriamente detto, sia la casa-convitto) i laboratori dei calzolai e di sarti. Quello dei calzolai è strettissimo, piazzato in un localino accanto al campanile.

Don Bosco si siede a un dischetto, e davanti a quattro ragazzi martella una suola. Poi insegna a maneggiare la lesina e lo spago impegiato. Dopo i calzolai e i sarti vengono i legatori, i falegnami, i tipografi, i meccanici. Sei laboratori in cui i posti privilegiati sono “per gli orfani, i ragazzi totalmente poveri e abbandonati” (foglio-regolamento). Per questi laboratori, che presto trapianta in altre opere salesiane fuori Piemonte e poi fuori d’Italia, don Bosco “inventa” un nuovo genere di religiosi: i coadiutori salesiani. Di uguale dignità e diritto dei preti, ma specializzati per le scuole professionali (alla morte di don Bosco, le scuole professionali salesiane saranno 14, distribuite in Europa e America del Sud. Cresceranno fino a toccare il numero di 200). Negli anni che seguono con un lavoro a volte estenuante, don Bosco realizza opere imponenti. Accanto ai Salesiani fonda la Congregazione delle Figlie di Maria Ausiliatrice e i Cooperatori Salesiani. Costruisce il santuario di Maria Ausiliatrice in Valdocco e fonda 50 case dei Salesiani e 54 di suore Figlie di Maria Ausiliatrice in sei nazioni. Inizia le Missioni Salesiane inviando preti, coadiutori e suore nell’America Latina. Pubblica e scrive lui stesso collane di libri popolari “per la gente cristiana e i ragazzi del popolo”. Inventa un “sistema di educazione” familiare, fondato su tre valori: ragione, religione, amorevolezza, che presto tutti riconoscono come il “sistema ideale” per educare i giovani. Quando qualcuno gli elenca le opere che ha creato, don Bosco interrompe brusco “Io non ho fatto niente. E’ la Madonna che ha fatto tutto”. Gli ha tracciato la strada con quel misterioso “sogno”, quando era un ragazzetto, e con tanti altri misteriosi “sogni” successivi, che lasciano ancora perplessi gli studiosi della sua figura. Morì all’alba del 31 gennaio 1888. Ai Salesiani che vegliavano attorno al suo letto, mormorò nelle ultime ore: “Vogliatevi bene come fratelli. Fate del bene a tutti, del male a nessuno. Dite ai miei ragazzi che li aspetto tutti in Paradiso”. Il messaggio di don Bosco? La vita, questo grande dono di Dio, bisogna spenderla, e spenderla bene. Non chiudendosi nell’egoismo, ma aprendosi all’amore e all’impegno dei tanti che sono più poveri di noi.

LETTERA DA ROMASan G B

Miei carissimi figliuoli in Gesù Cristo.

Vicino o lontano io penso sempre a voi. Un solo è il mio desiderio; quello di vedervi felici nel tempo e nell’eternità.-Questo pensiero, questo desiderio mi risolsero a scrivervi questa lettera. Sento, o cari miei, il peso della mia lontananza da voi e il non vedervi e il non sentirvi mi cagiona pena quale voi non potete immaginare. Perciò io avrei desiderato scrivervi queste righe una settimana fa, ma le continue occupazioni me lo impedirono. Tuttavia, benché pochi giorni manchino al mio ritorno, voglio anticipare la mia venuta tra voi almeno per lettera, non potendolo di persona. Sono le parole di chi vi ama teneramente in Gesù Cristo ed ha dovere di parlarvi colla libertà di un padre. E voi me lo permetterete, non è vero? E mi presterete attenzione e metterete in pratica quanto sono per dirvi.

“Sogno. L’Oratorio prima del 1870”
Ho affermato che voi siete l’unico ed il continuo pensiero della mia mente. Or dunque in una delle sere scorse, io mi era ritirato in camera, e mentre mi disponeva per andare a riposo, aveva incominciato a recitare le preghiere che m’insegnò la mia buona mamma. ln quel momento non so bene se preso dal sonno o tratto fuori di me da una distrazione, mi parve che mi si presentassero innanzi due degli antichi giovani dell’Oratorio. Uno di questi due mi si avvicinò e salutatomi affettuosamente mi disse: – O Don Bosco! mi conosce?

– Si che ti conosco: risposi.

– E si ricorda ancora di me? soggiunse quell’uomo.

– te e di tutti gli altri. Tu sei Valfrè, ed eri nell’Oratorio prima del 1870.

– Dica, continuò Valfrè, vuol vedere i giovani che erano nell’Oratorio ai miei tempi?

– Si, fammeli vedere, io risposi; ciò mi cagionerà molto piacere. E Valfrè mi mostro i giovani tutti colle stesse sembianze e colla statura e nell’età di quel tempo. Mi pareva di essere nell’antico Oratorio nell’ora della ricreazione. Era una scena tutta vita, tutta moto, tutta allegria. Chi correva, chi saltava, chi faceva saltare. Qui si giuocava alla rana, là a bararotta ed al pallone. In un luogo era radunato un crocchio di giovani che pendeva dalle labbra di un prete, il quale narrava una storiella. In un altro luogo un chierico il quale in mezzo ad altri giovanetti giuocava all’asino vola od ai mestieri. Si cantava, si rideva da tutte parti e dovunque chierici e preti e intorno ad essi i giovani che schiamazzavano allegramente. Si vedeva che fra i giovani e i Superiori regnava la più grande cordialità e confidenza. lo ero incantato a questo spettacolo e Valfrè mi disse:-Veda: la familiarità porta amore, e l’amore confidenza. Ciò è che apre i cuori e i giovani palesano tutto senza timore ai maestri, agli assistenti ed ai Superiori. Diventano schietti in confessione e fuori di confessione e si prestano docili a tutto ciò che vuol comandare colui dal quale sono certi di essere amati.

” L’Oratorio nel 1884″
In quell’istante si avvicinò a me l’altro mio antico allievo che aveva la barba tutta bianca e mi disse: – D. Bosco, vuole adesso conoscere e vedere i giovani che attualmente sono nell’Oratorio? (costui era Buzzetti Giuseppe).

-Sì! risposi io; perché è già un mese che più non li vedo! E me li additò.

Vidi l’Oratorio e tutti voi che facevate ricreazione. Ma non udiva più grida di gioia e cantici, non più vedeva quel moto, quella vita come nella prima scena. Negli atti e nel viso di molti giovani si leggeva una noia, una spossatezza, una musoneria, una diffidenza che faceva pena al mio cuore. Vidi è vero molti che correvano, giuocavano con beata spensieratezza, ma altri non pochi io ne vedeva star soli, appoggiati ai pilastri, in preda a pensieri sconfortanti; altri su per le scale e nei corridoi e sopra i poggiuoli dalla parte del giardino per sottrarsi alla ricreazione comune; altri passeggiare lentamente in gruppi, parlando sotto voce tra di loro, dando attorno occhiate sospettose e maligne: talora sorridere, ma con un sorriso accompagnato da occhiate da far non solamente sospettare, ma credere che San Luigi avrebbe arrossito se si fosse trovato in compagnia di costoro; eziandio fra coloro che giuocavano ve ne erano alcuni cosi svogliati, che facevano veder chiaramente, come non trovassero gusto nei divertimenti.

– Hai visti i tuoi giovani? mi disse quell’antico allievo. – Li vedo, risposi sospirando.
– Quanto sono differenti da quelli che eravamo noi una volta! esclamò quel vecchio allievo.
– Purtroppo! quanta svogliatezza in questa ricreazione.
– E di qui proviene la freddezza in tanti nell’accostarsi ai Santi Sacramenti; la trascuranza delle pratiche di pietà in chiesa e altrove; lo star malvolentieri in un luogo, ove la Divina Provvidenza li ricolma d’ogni bene pel corpo, per l’anima, per l’intelletto. Di qui il non corrispondere che molti fanno alla loro vocazione; di qui le ingratitudini verso i Superiori; di qui i segretumi e le mormorazioni, con tutte le altre deplorevoli conseguenze.

“Carità manifesta e sapiente”
– Capisco, intendo, risposi io. Ma come si possono rianimare questi miei cari giovani, acciocché riprendano l’antica vivacità, allegrezza, espansione?

– Coll’amore!

– Amore? Ma i miei giovani non sono amati abbastanza? Tu lo sai se io li amo. Tu sai quanto per essi ho sofferto e tollerato per corso di ben quarant’anni, e quanto tollero e soffro ancora adesso. Quanti stenti, quante umiliazioni, quante opposizioni, quante persecuzioni per dare ad essi pane, casa, maestri e specialmente per procurare la salute delle loro anime. Ho fatto quanto ho potuto e saputo per coloro che formano l’affetto di tutta la mia vita.

– Non parlo di te!

– Di chi dunque? Di coloro che fanno le mie veci? Dei Direttori Prefetti, maestri, assistenti? Non vedi come sono martiri dello studio e del lavoro? Come consumino i loro anni giovanili per coloro che ad essi affidò la Divina Provvidenza?

– Vedo, conosco; ma ciò non basta: ci manca il meglio.
– Che cosa manca adunque?
– Che i giovani non solo siano amati, ma che essi stessi conoscano di essere amati.
– Ma non hanno gli occhi in fronte? Non hanno il lume dell’intelligenza? Non vedono che quanto si fa per essi è tutto per loro amore?

– No: lo ripeto, ciò non basta.
– Che cosa ci vuole adunque?
– Che essendo amati in quelle cose che a loro piacciono, col partecipare alle loro inclinazioni infantili, imparino a veder l’amore in quelle cose che naturalmente lor piacciono poco; quali sono la disciplina, lo studio, la mortificazione di se stessi, e queste cose imparino a fare con amore.

“Gli educatori ‘anima della ricreazione'”
– Spiegati meglio!
– Osservi i giovani in ricreazione.
– Osservai e quindi replicai: E che cosa c’è di speciale da vedere?
– Sono tanti anni che va educando giovani e non capisce? Guardi meglio! dove sono i nostri Salesiani?

Osservai e vidi che ben pochi preti e chierici si mescolavano fra i giovani e ancor più pochi prendevano parte ai loro divertimenti. I Superiori non erano più l’anima della ricreazione. La maggior parte di essi passeggiavano fra di loro parlando, senza badare che cosa facessero gli allievi; altri guardavano la ricreazione non dandosi neppur pensiero dei giovani; altri sorvegliavano cosi alla lontana senza avvertire chi commettesse qualche mancanza; qualcuno poi avvertiva, ma in atto minaccioso e ciò raramente. Vi era qualche Salesiano che avrebbe desiderato intromettersi in qualche gruppo di giovani, ma vidi che questi giovani cercavano studiosamente di allontanarsi dai maestri e dai Superiori.

Allora quel mio amico ripigliò: – Negli antichi tempi dell’Oratorio, lei non stava sempre in mezzo ai giovani e specialmente in tempo di ricreazione? Si ricorda quei belli anni? Era un tripudio di paradiso, un’epoca che ricordiam sempre con amore, perché l’amore era quello che ci serviva di regola, e noi per lei non avevamo segreti.

– Certamente! E allora tutto era gioia per me, e nei giovani uno slancio per avvicinarsi a me, per volermi parlare ed una viva ansia di udire i miei consigli e metterli in pratica. Ora però vedi come le udienze continue e gli affari moltiplicati e la mia sanità me lo impediscono?

– Va bene: ma se lei non può, perché i suoi Salesiani non si fanno suoi imitatori? Perché non insiste, non esige che trattino i giovani come li trattava lei?

Io parlo, mi spolmono, ma pur troppo che molti non si sentono più di fare le fatiche d’una volta.

– E quindi trascurando il meno, perdono il più, e questo più, sono le loro fatiche. Che amino ciò che piace ai giovani e i giovani ameranno ciò che piace ai Superiori. E a questo modo sarà facile la loro fatica. La causa del presente cambiamento nell’Oratorio è che un certo numero di giovani non ha confidenza coi Superiori. Anticamente i cuori erano tutti aperti ai Superiori, che i giovani amavano ed ubbidivano prontamente. Ma ora i Superiori sono considerati come Superiori e non più come padri, fratelli ed amici; quindi sono temuti e poco amati. Perciò se si vuol fare un cuor solo ed un’anima sola per amor di Gesù bisogna che si rompa quella fatale barriera della diffidenza e sottentri a questa la confidenza cordiale. Che quindi l’obbedienza guidi l’allievo, come la madre guida il suo fanciullo. Allora regnerà nell’Oratorio la pace e l’allegrezza antica.

– Come dunque fare per rompere questa barriera?on bosco 2

– Famigliarità coi giovani specialmente in ricreazione. Senza famigliarità non si dimostra l’amore e senza questa dimostrazione non vi può essere confidenza. Chi vuole essere amato bisogna che faccia vedere che ama. Gesù Cristo si fece piccolo coi piccoli e portò le nostre infermità. Ecco il maestro della famigliarità. Il maestro visto solo in cattedra è maestro e non più, ma se va in ricreazione coi giovani diventa come fratello. Se uno è visto solo a predicare dal pulpito, si dirà che fa né più né meno del proprio dovere, ma se dice una parola in ricreazione è la parola d’uno che ama. Quante conversioni non cagionarono alcune sue parole fatte risuonare all’improvviso all’orecchio di un giovane nel mentre che si divertiva.

“Amorevolezza”
Chi sa di essere amato, ama, e chi è amato ottiene tutto, specialmente dai giovani. Questa confidenza mette una corrente elettrica fra i giovani e i Superiori. I cuori si aprono e fanno conoscere i loro bisogni, e palesano i loro difetti: questo amore fa sopportare ai Superiori le loro fatiche, le noie, le ingratitudini, i disturbi, le mancanze, le negligenze dei giovanetti. Gesù Cristo non spezzò la canna già fessa, né spense il lucignolo che fumava. Ecco il vostro modello. Allora non si vedrà più chi lavorerà per fine di vanagloria; chi punirà solamente per vendicare l’amor proprio offeso; chi si ritirerà dal campo della sorveglianza per gelosia di una temuta preponderanza altrui; chi mormorerà degli altri volendo essere amato e stimato dai giovani, esclusi tutti gli altri superiori, guadagnando null’altro che disprezzo ed ipocrite moine; chi si lasci rubare il cuore da una creatura e per far la corte a questa trascuri tutti gli altri giovanetti; chi per amore dei propri comodi tenga in non cale il dovere strettissimo della sorveglianza; chi per un vano rispetto umano si astenga dall’ammonire chi deve essere ammonito. Se ci sarà questo vero amore, non si cercherà altro che la gloria di Dio e la salute delle anime. E’ quando illanguidisce questo amore che le cose non vanno più bene. Perché si vuole sostituire all’amore la freddezza di un regolamento? Perché i Superiori si allontanano dall’osservanza di quelle regole che D. Bosco ha loro dettate? Perché al Sistema di prevenire colla vigilanza e amorosamente i disordini, si va sostituendo a poco a poco Il Sistema, meno pesante e più spiccio per chi comanda, di bandir leggi che, se si sostengono coi castighi, accendono odi e fruttano dispiaceri; se si trascura di farle osservare, fruttano disprezzo per i Superiori e cagione sono di disordini gravissimi?

“L’Educatore sia tutto a tutti”
E ciò accade necessariamente se manca la famigliarità. Se adunque si vuole che l’Oratorio ritorni all’antica felicità, si rimetta in vigore l’antico sistema: che il Superiore sia tutto a tutti, pronto ad ascoltare sempre ogni dubbio o lamentanza dei giovani, tutto occhi per sorvegliare paternamente la loro condotta, tutto cuore per cercare il bene spirituale e temporale di coloro che la Provvidenza gli ha affidati. Allora i cuori non saranno più chiusi, e non regneranno più certi segretumi che uccidono. Solo in caso di immoralità i Superiori siano inesorabili. E meglio correre pericolo di scacciar dalla casa un innocente, che ritenere uno scandaloso. Gli assistenti si facciano uno strettissimo dovere di coscienza di riferire ai Superiori tutte quelle cose, le quali conoscano in qualunque modo essere offesa di Dio.

– Allora io interrogai: – E quale è il mezzo precipuo perché trionfi simile famigliarità e simile amore e confidenza?
– L’osservanza esatta delle regole della casa.
– E null’altro?
– Il piatto migliore in un pranzo è quello della buona cera. Mentre cosi il mio antico allievo finiva di parlare ed io continuava ad osservare con vivo dispiacere quella ricreazione, a poco a poco mi sentii oppresso da grande stanchezza che andava ognora crescendo. Questa oppressione giunse al punto che, non potendo più resistere, mi scossi e rinvenni. Mi trovai in piedi vicino al letto. Le mie gambe erano così gonfie e mi facevano cosi male che non poteva più star ritto. L’ora era tardissima, quindi me ne andai a letto risoluto di scrivere ai miei cari figliuoli queste righe.

Io desidero di non far questi sogni perché mi stancano troppo. Nel giorno seguente mi sentiva rotto nella persona e non vedeva l’ora di potermi riposare la sera seguente. Ma ecco appena fui in letto ricominciare il sogno. Avevo d’innanzi il cortile, i giovani che ora sono nell’Oratorio, e lo stesso antico allievo dell’Oratorio. Io presi ad interrogarlo- Ciò che mi dicesti io lo farò sapere ai miei Salesiani, ma ai giovani dell’Oratorio che cosa debbo dire?

Mi rispose: – Che essi riconoscano quanto i Superiori, i maestri, gli assistenti si fatichino e studino per loro amore, poiché se non fosse pel loro bene, non si assoggetterebbero a tanti sacrifizi; che si ricordino essere l’umiltà la fonte di ogni tranquillità; che sappiano sopportare i difetti degli altri, poiché al mondo non si trova la perfezione, ma questa è solo in paradiso; che cessino dalle mormorazioni, poiché queste raffreddano i cuori; e sovratutto che procurino di vivere nella santa grazia di Dio. Chi non ha pace con Dio, non ha pace con sé, non ha pace cogli altri.

– E tu mi dici dunque che tra i miei giovani vi sono di quelli che non hanno la pace con Dio?

– Questa è la prima causa del malumore, fra le altre che tu sai, alle quali devi porre rimedio, e che non fa d’uopo che ora ti dica. Infatti non diffida se non chi ha segreti da custodire, se non chi teme che questi segreti vengano a conoscersi, perché sa che gliene tornerebbe vergogna e disgrazia. Nello stesso tempo, se il cuore non ha la pace con Dio, rimane angosciato, irrequieto, insofferente d’obbedienza, si irrita per nulla, gli sembra che ogni cosa vada a male, e perché esso non ha amore, giudica che i Superiori non lo amino.

– Eppure, o caro mio, non vedi quanta frequenza di confessioni e di comunioni vi è nell’Oratorio?

– E’ vero che grande è la frequenza delle confessioni, ma ciò che manca radicalmente in tanti giovanetti che si confessano è la stabilità nei proponimenti. Si confessano, ma sempre le stesse mancanze, le stesse occasioni prossime, le stesse abitudini cattive, le stesse disobbedienze, le stesse trascuranze nei doveri. Cosi si va avanti per mesi e mesi, e anche per anni, e taluni perfino cosi continuano alla 5a ginnasiale. Sono confessioni che valgono poco o nulla; quindi non recano pace, e se un giovanetto fosse chiamato in quello stato al tribunale di Dio, sarebbe un affare ben serio.

– E di costoro ve ne ha molti all’Oratorio?

– Pochi in confronto del gran numero di giovani che sono nella casa. Osservi – E me li additava.

Io guardai e ad uno ad uno vidi quei giovani. Ma in questi pochi vidi delle cose che hanno profondamente amareggiato il mio cuore. Non voglio metterle sulla carta, ma quando sarò di ritorno voglio esporle a ciascuno cui si riferiscono. Qui vi dirò soltanto che è tempo di pregare e di prendere ferme risoluzioni; proporre non colle parole, ma coi fatti, e far vedere che i Comollo, i Savio Domenico, i Besucco e i Saccardi, vivono ancora tra noi.

In ultimo dimandai a quel mio amico: – Hai null’altro da dirmi?

– Predica a tutti, grandi e piccoli, che si ricordino sempre che sono figli di Maria SS. Ausiliatrice. Che essa stessa li ha qui radunati per condurli via dai pericoli del mondo, perché si amassero come fratelli, e perché dessero gloria a Dio e a lei colla loro buona condotta. Che è la Madonna quella che loro provvede pane e mezzi di studiare con infinite grazie e portenti. Si ricordino che sono alla vigilia della festa della loro SS. Madre, e che coll’aiuto suo deve cadere quella barriera di diffidenza, che il demonio ha saputo innalzare tra giovani e superiori, e della quale sa giovarsi per la rovina di certe anime.

-E ci riusciremo a togliere questa barriera?

– Si certamente, purché grandi e piccoli siano pronti a soffrire qualche piccola mortificazione per amor di Maria, e mettano in pratica ciò che io le ho detto.

Intanto io continuava a guardare i miei giovanetti, e allo spettacolo di coloro che io vedeva avviati verso l’eterna perdizione, sentii tale stretta al cuore che mi svegliai. Molte cose importantissime che io vidi desidererei ancora narrarvi, ma il tempo e le convenienze non me lo permettono.

“Ritornino i giorni dell’affetto e della confidenza”
Concludo: Sapete che cosa desidera da voi questo povero vecchio, che per i suoi cari giovani ha consumata tutta la vita? Niente altro fuorché, fatte le debite proporzioni, ritornino i giorni felici dell’antico Oratorio. I giorni dell’amore e della confidenza cristiana tra i giovani ed i superiori; i giorni dello spirito di accondiscendenza e sopportazione per amore di Gesù Cristo degli uni verso degli altri; i giorni dei cuori aperti con tutta semplicità e candore; i giorni della carità e della vera allegrezza per tutti. Ho bisogno che mi consoliate dandomi la speranza e la promessa che voi farete tutto ciò che desidero per il bene delle anime vostre.

Voi non conoscete abbastanza quale fortuna sia la vostra di essere stati ricoverati nell’Oratorio. Innanzi a Dio vi potesto: Basta che un giovane entri in una casa salesiana, perché la Vergine SS. lo prenda subito sotto la sua protezione speciale. – Mettiamoci adunque tutti d’accordo. La carità di quelli che comandano, la carità di quelli che devono obbedire, faccia regnare fra di noi lo spirito di S. Francesco di Sales. O miei cari figliuoli, si avvicina il tempo nel quale dovrò distaccarmi da voi e partire per la mia eternità, (Nota del segretario: A questo punto D. Bosco sospese di dettare; gli occhi suoi si empirono di lacrime, non per rincrescimento, ma per ineffabile tenerezza, che trapelava dal suo sguardo e dal suono della sua voce. Dopo qualche istante continuò:) quindi io bramo di lasciar voi, o preti, o chierici, o giovani carissimi per quella via del Signore nella quale esso stesso vi desidera. – A questo fine il Santo Padre che io ho visto venerdì, 9 di maggio, vi manda di tutto cuore la sua benedizione.

Il giorno della festa di Maria Ausiliatrice mi troverò con voi innanzi all’effigie della nostra amorosissima Madre. – Voglio che questa gran festa si celebri con ogni solennità; e D. Lazzero e D. Marchisio pensino a far si che stiamo allegri anche in refettorio. La festa di Maria Ausiliatrice deve essere il preludio della festa eterna che dobbiamo celebrare tutti insieme uniti un giorno in Paradiso.

Vostro aff.mo amico in G.C. Sac. Gio. Bosco


NB: I titoletti sono presi dalla recente pubblicazione della ELLEDICI (Torino 1999)
(con una scheda di riflessione di Don Vecchi)

 

 

 

http://www.youtube.com/watch?v=-anVybSs8S0&list=PL6QMo1BrwnbLP9aF8z7nMIxcYCnimUlc8
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